Il trabocco è una strana macchina da pesca sospesa tra cielo e terra. Il trabocco è costituito da diversi elementi: una passerella lunga e stretta aggrappata agli scogli mediante pali infissi nella roccia; una piattaforma con una piccola struttura in legno per il rimessaggio degli attrezzi; un argano per calare a mare e ritirare un’ampia rete quadrata, sostenuta da lunghe antenne protese verso il cielo. Si tratta di una struttura lignea che si spinge a circa 100 m dalla costa, grazie ad un sistema di pali infissi nel fondale marino o negli scogli. Il termine “trabucco” trae origine dal provenzale “trabuc” e dal verbo “trabucar” che significa, appunto, riversare, far cadere dall’alto. La radice del termine provenzale deriva dal latino trabs- trabis, che significa trave, ma anche albero e nave. È molto probabile che i trabocchi utilizzati come strutture per la pesca derivassero da strutture utilizzate originariamente come congegni bellici, come dimostra la presenza di trabocchi posti sotto torri di avvistamento sveve, tra Peschici e Vieste.
Questi dispositivi per la pesca ebbero una grande diffusione nell’800 e agli inizi del ‘900, quando secondo l’antropologo Finamore esistevano una cinquantina di trabocchi nel tratto di costa compreso tra Pescara e Vasto.
Da documentazioni fotografiche d’epoca e anche da fonti orali sembra che i primi metodi di pesca fossero basati sull’impiego di fiocine ed arpioni e questi erano utilizzati inizialmente anche dopo la costruzione dei trabocchi, che consentivano di spingersi più a largo e quindi di assicurare maggior successo alla pesca nel caso di mare calmo. Per poter pescare dai trabocchi anche in condizioni di mare mosso si passò all’impiego delle reti, che venivano fabbricate utilizzando lino e canapa, prodotti in loco.
I materiali utilizzati erano molto deperibili e richiedevano continue manutenzioni e periodiche sostituzioni. Le reti, in fibra naturale, dovevano essere sostituite spesso, così come i pali che, a contatto con l’acqua, andavano incontro a marciume. Per aumentare la durata della struttura, si cercava legname resistente di specie come lecci e querce. Anche la stabilità della struttura infissa sugli scogli mediante zeppe messe a contrasto tra i pilastri di legno e i fori scavati nella roccia tendeva a perdersi con il tempo, per il logorio dei materiali e per la scarsa adesione creata attraverso le zeppe. Con il tempo la tecnica si è evoluta, per esempio scegliendo legni teneri per le zeppe, che venivano bagnate una volta messe in posizione per aumentare l’efficienza dell’incastro ed evitare che rigonfiamenti successivi del legno portassero a compromettere la stabilità della struttura. Così come si adottarono particolari modalità di trattamento delle reti e delle corde (che venivano sottoposte a bollitura con resine e cortecce di pino marittimo) per aumentarne la resistenza e la durata. Attraverso l’applicazione di tiranti e controventi, il trabocco con il tempo diventa una struttura al tempo stesso rigida, snella e flessibile. La costruzione dei trabocchi si è poi arricchita di alcune ritualità, come quella di tagliare in agosto e in condizione di luna calante gli alberi che sarebbero stati successivamente utilizzati per la costruzione della struttura, dopo averli sottoposti ad una stagionatura all’aria della durata di un anno ma anche più. La manutenzione delle strutture esistenti veniva effettuata solitamente nel mese di gennaio. Fu soltanto a seguito della costruzione della ferrovia lungo il tratto di costa caratterizzato dalla presenza dei trabocchi che venne introdotto l’impiego del filo di ferro, che consentiva di dare maggiore stabilità alle strutture, rispetto alle corde utilizzate in maniera esclusiva fino a quel momento. Tra i materiali utilizzati entrarono poi anche dadi, bulloni, chiodi, … tutto quanto era utilizzato nella costruzione della ferrovia e il cui impiego poteva tornare utile anche per i trabocchi. Successivamente alla guerra e alla distruzione di lunghi tratti della ferrovia, molto materiale di risulta entrò nella costruzione dei trabocchi, che acquisirono un aspetto più moderno e una maggiore robustezza. Quindi, con la costruzione della ferrovia nella seconda metà dell’800 nasce una nuova generazione di trabocchi, che avranno però una vita breve come strumenti da pesca. La diffusione di nuove tecniche di pesca più efficaci insieme alla graduale perdita di produttività della pesca in prossimità della costa hanno portato al declino dell’interesse verso il mantenimento di queste strutture. Questi congegni di pesca, vere e proprie opere dell’ingegno umano, diffuse lungo la costa abruzzese, molisana e pugliese (garganica), quando presenti, hanno perso la funzione originaria passando ad altra più fruttuosa destinazione.
I trabocchi sono legati alla comunità dei traboccanti, figure professionali che hanno operato fino agli anni ’60 del secolo scorso rappresentando un’originale sintesi tra attività di pesca e agricoltura. Alcuni traboccanti, oltre all’attività di pesca, hanno acquisito tecniche e competenze per la costruzione dei trabocchi che si sono tramandate di generazione in generazione, spesso all’interno di pochi nuclei familiari. Anche in considerazione del limitato numero di traboccanti, si è consolidata nel tempo un’identità collettiva che ha dato luogo a una vera e propria comunità.
Dopo la dismissione dei trabocchi come strumenti di produzione di reddito derivante dall’attività di pesca, la memoria della comunità di riferimento viene attualmente valorizzata dall’Associazione “Trabocchi e traboccanti” di Rocca San Giovanni.
“Una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale. Proteso dagli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti il Trabocco aveva un aspetto formidabile” (Gabriele d’Annunzio, Il trionfo della morte, 1894).
“…Cosa ci dicono infine questi trabocchi sorpresi nel loro lirico incanto? Che l’opera umana è sempre macchinosa e fragile, basta un soffio per distruggerla. Ma proprio la sua fragilità è anche la ragione della sua resistenza: un poco sopra le onde, un poco sotto le nuvole, la “grande macchina pescatoria” sta a simbolizzare la patetica eppure grandiosa capacità dell’essere umano di credere nel futuro nonostante l’amarezza e la piccolezza del suo destino”. Dacia Maraini